Dalla Calabria a Terra Madre, ecco due nuovi Presìdi Slow Food: il pomodorino siccagno di Zagarise e l’arancia belladonna di San Giuseppe
Uno arriva dal paese che sorge ai confini del parco della Sila, in provincia di Catanzaro, l’altro da una frazione del Comune di Reggio Calabria
I Presìdi Slow Food del pomodorino siccagno di Zagarise e dell’arancia belladonna di San Giuseppe saranno presentati ufficialmente a Terra Madre Salone del Gusto, a Torino dal 22 al 26 settembre
Un pomodorino e un’arancia. Una strana coppia quella composta dai due nuovi Presìdi Slow Food appena inaugurati in Calabria: li raccontiamo insieme, perché entrambi sono in arrivo a Torino per Terra Madre Salone del Gusto, l’evento mondiale dedicato al cibo buono, pulito e giusto e alle politiche alimentari che si svolge a Parco Dora dal 22 al 26 settembre.
L’arancia belladonna di San Giuseppe sarà presentata ufficialmente a Terra Madre il 23 settembre alle 11.30: nello stand della Regione Calabria allestito a Parco Dora è in programma la degustazione della composta di arance, a cura dei cuochi dell’Alleanza Slow Food, in diverse preparazioni, dalla gelateria alla pasticceria. Appuntamento al 24 settembre alle 12, invece, per il pomodorino siccagno di Zagarise: la degustazione, in questo caso, vede protagonista la conserva di pomodorini siccagni.
Il pomodorino siccagno di Zagarise
Con l’espressione coltivazione seccagna, in ambito agrario, si definisce quella che non richiede irrigazioni, ovvero in asciutta. Ecco spiegato, in pochissime parole, il segreto del pomodorino siccagno di Zagarise, l’ultimo Presidio Slow Food. Una cosa, però, è bene chiarirla subito: non è vero che questa varietà di pomodoro non ha bisogno di acqua. È però senz’altro vero che il suo fabbisogno idrico è infinitamente ridotto rispetto alle altre varietà diffuse in Italia. «Se le piantine vengono trapiantate ad aprile, grazie alle due o tre normali precipitazioni nella stagione estiva il nostro pomodoro riesce a crescere e a dare frutti» spiega Luigi Mangone, referente dei quattro produttori che oggi aderiscono al Presidio. «Una stagione come quella di quest’anno, senza piogge da maggio a luglio, è però un problema anche per il siccagno di Zagarise».
Decenni per selezionare i semi più resistenti
Ma com’è possibile che una pianta di pomodori sappia resistere a condizioni simili? «Come per tutte le piante, la selezione operata dai contadini ha prodotto un miglioramento nella varietà: anno dopo anno, gli agricoltori hanno scelto le piantine più resistenti e, da quelle, ottenuto i semi per gli anni successivi. In questo modo si è arrivati ad avere piante in grado di sopportare carenze idriche importanti e dalle spiccate caratteristiche di adattamento» aggiunge Mangone. Il pomodorino è coltivato in tutto il territorio di Zagarise, comune del catanzarese che copre un dislivello di quasi mille metri, dai circa 65 metri sul livello del mare del punto più basso fino a quote di montagna: «Il suolo di Zagarise è certamente fertile, ma il fatto che la pianta cresca ovunque è la dimostrazione della sua capacità di adattamento» aggiunge il produttore. Non solo, la selezione fatta nel tempo ha prodotto anche maggiore resistenza ai parassiti: «Le piante oggi sono protette solo con macerati di ortica, di aglio, di peperoncino o di cipolle, soluzioni che vengono irrorate in maniera preventiva» prosegue Mangone.
Un pomodoro che risponde alle sfide del presente
«La particolare resistenza del pomodorino siccagno di Zagarise si inserisce in maniera significativa nel quadro climatico odierno, caratterizzato da temperature alte e siccità estrema, come abbiamo potuto sperimentare negli ultimi mesi» spiega Giuseppe Caruso, responsabile della biodiversità nella Condotta Slow Food di Catanzaro. Per un produttore, scegliere di coltivare una varietà in grado di sopperire agilmente alle carenze idriche può fare davvero la differenza. E tutto ciò può avere riflessi economici interessanti: «Valorizzare un prodotto agricolo in un territorio che soffre lo spopolamento, come l’area di Zagarise, può dare una boccata d’ossigeno a un’economia in sofferenza – aggiunge Alberto Carpino, referente del progetto Presìdi Slow Food in Calabria –. In quest’area, oggi si producono perlopiù olio e miele: aggiungere a questo paniere di prodotti il pomodorino, la cui piccola produzione oggi è assorbita dai ristoranti e dalle osterie che aderiscono all’Alleanza Slow Food dei cuochi, porterà sicuramente dei benefici».
Frutti piccini ma gustosi
Il pomodorino di Zagarise, di forma tondeggiante, liscia o leggermente costoluta e colore rosso intenso, normalmente pesa tra i 40 e i 60 grammi: una pezzatura ridotta, come di piccole dimensioni è la pianta che difficilmente raggiunge il metro di altezza. Ogni pianta assicura all’incirca un chilogrammo di bacche, quantitativi ragguardevoli considerate le dimensioni del fusto, ma decisamente inferiori alle rese delle cultivar di pomodori più produttivi che, infatti, negli ultimi anni hanno invaso il territorio di Zagarise provocando la scomparsa del siccagno. In pochissimi lo hanno custodito: tra loro, alcuni giovani agricoltori che negli scorsi mesi hanno coinvolto l’amministrazione comunale di Zagarise nel lancio del Presidio Slow Food, ottenendo immediato sostegno dal sindaco Domenico Gallelli. «Il gusto è il punto forte di questo pomodorino – spiega Mangone –. Non avendo ricevuto molta acqua, le sostanze come i polifenoli non vengono diluite e di conseguenza il sapore rimane intenso, tanto che da noi i pomodori si mangiano senza sale perché sono sapidi già così».
In cucina, l’utilizzo più frequente dei pomodorini siccagni è a crudo, in insalata, ma la poca acqua e la buccia spessa li rendono ideali anche per la conservazione invernale: «C’è chi ne fa conserva, chi i pelati o i filetti senza buccia – continua il produttore –. Alcuni preferiscono far essiccare i pomodorini, altri li utilizzano per u salaturu, una salamoia con pomodori, olive e peperoni verdi, aglio e finocchietto. I più temerari, alla fine della stagione, li raccolgono ancora acerbi e li appendono per avere il pomodoro fresco in autunno inoltrato».
L’arancia belladonna di San Giuseppe
L’arancia belladonna cresce centoventi chilometri più a sud, nella frazione di Villa San Giuseppe del Comune di Reggio Calabria. Ci troviamo a nord del centro della città, nell’area del fondovalle compresa tra le fiumare del Gallico e del Catona, due corsi d’acqua che dall’Aspromonte scendono fino allo Stretto di Messina. Se resta misteriosa l’origine del nome, note – e degne di nota – sono le caratteristiche di questo frutto: si tratta di una varietà di arance tardive, che giungono a maturazione tra aprile e maggio. Hanno pezzatura media, che si aggira intorno ai 200 grammi, forma ovoidale e buccia sottile: il frutto, ottimo da mangiare fresco, può anche essere trasformato in marmellate e scorzette candite. La polpa dell’arancia belladonna è bionda, molto ricca di succo e con pochissimi semi. Proprietà organolettiche che, fin dall’Ottocento e per tutta la prima metà del secolo scorso, ne hanno assicurato il successo: «Fino agli anni ‘70 questa coltura produceva un reddito importante e rappresentava una voce significativa del comparto agricolo della nostra provincia, perché il prezzo corrisposto era superiore a quello di altri prodotti» spiega Franco Saccà, referente Slow Food del Presidio.
Le arance dello zar
La gestione degli aranceti avveniva in colonìa, cioè con la concessione dei terreni da parte dei grossi proprietari terrieri ai coloni, che lavoravano negli appezzamenti. Il superamento di questo modello, la conseguente frammentazione della proprietà, la sostituzione della belladonna con varietà commercialmente più popolari e precoci come l’arancia tarocco, e anche il progressivo abbandono dell’agricoltura in favore di altri mestieri hanno contribuito alla perdita della belladonna. Quelli che da queste parti ancora adesso vengono chiamati giardini, cioè gli aranceti, oggi non superano l’ettaro come superficie, e rappresentano produzioni marginali per le aziende agricole che difficilmente potrebbero basare la propria sussistenza economica su questa varietà: «È un peccato, anche perché anticamente l’arancia belladonna veniva esportata ovunque, sia in Italia sia all’estero. Si dice addirittura che fosse sulla tavola degli Zar di Russia – continua Saccà –. L’abitudine a esportare queste arance era così consolidata che ancora oggi si usa misurare il raccolto in “vagoni”, cioè nei carichi che un tempo partivano dalle stazioni ferroviarie delle località di Gallico e Catona, pari a 300 quintali».
Il valore della vita di comunità
«La belladonna è in via d’estinzione a causa dell’abbandono degli appezzamenti da parte dei produttori, avvenuto perché questa arancia ha smesso di essere remunerativa – sintetizza Francesco Caridi, referente dei cinque produttori che aderiscono al Presidio Slow Food –. Allo stato attuale, difficilmente si recuperano i costi di produzione. Perché, allora, lo faccio? Mi spinge l’eccellenza del prodotto e il fatto che l’arancia esprime l’identità del nostro paese: la vita, da queste parti, per lungo tempo ha girato attorno a questo frutto».
La produzione, sommando i cinque produttori che aderiscono al Presidio, si attesta intorno ai cinque-seicento quintali: «C’è l’annata in cui le piante sono cariche e quella in cui le arance si contano sulle dita di una mano – continua Caridi – quindi negli anni, per cercare di mantenere in vita le aziende agricole, abbiamo diversificato».
Il Presidio Slow Food, in questo come in tutti gli oltre 365 altri casi in giro per l’Italia, nasce per sostenere una produzione, difenderla dall’estinzione, promuoverne la conoscenza e lo sviluppo commerciale: un riconoscimento non fine a sé stesso, ma un vero strumento in grado di attivare microeconomie locali, far nascere e crescere filiere locali, difendere il suolo dall’abbandono e dal rischio idrogeologico che ne deriva e assicurare sovranità alimentare alle comunità che lo abitano.